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Costruire una famiglia: Diritto o Privilegio? | Carlo Tumino

Vi parlerò dei diritti del cuore. In questo momento se ascoltaste il mio cuore… va a centomila all’ora!

Allora facciamo un gioco questo pomeriggio: io non fingo di non essere emozionato e voi mi perdonerete se la mia voce è un po’ tremolante ma sto per raccontarvi la storia della mia vita.

Mi chiamo Carlo e trentacinque anni fa mi hanno tirato fuori dalla pancia di mia madre perché non respiravo più come dovevo. Qui fuori però tutto è bellissimo, i miei genitori continuano a guardarmi e piangere e ho un fratellino che mi fa sempre le smorfie.

Credo di vivere in un bellissimo sogno, invece è l’inizio della mia realtà.

Mi chiamo Carlo, ho cinque anni e adoro ballare. A mia madre ho detto che voglio fare il ballerino. Lei mi ha risposto che da grande potrò diventare quello che voglio. Allora da quel giorno ho imparato a sognare ad occhi aperti.

Mi chiamo Carlo, ho nove anni e a scuola mi chiamano tutti quanti Solange. Io gli ho detto che il mio vero nome è Carlo, ma loro continuano a prendermi in giro e a fare il verso alla mia voce. Allora la mia compagnetta di banco mi ha suggerito di chiudere gli occhi e sognare di essere un fantasma. Solo che a me non piace essere invisibile.

Mi chiamo Carlo ho quattordici anni e finalmente ho la mia prima fidanzatina. A scuola hanno smesso di prendermi in giro, ma l’amore non è come quello che descrivono nei film. Io ci sto bene con lei, ci diamo tanti bacetti e tutti i sabati sera andiamo a mangiare la pizza, ma io le farfalle allo stomaco proprio non le sento. Forse devo smetterla di sognare quegli amori che leggo sui libri.

Mi chiamo Carlo ho diciannove anni e ho appena detto a mia madre che mi piacciono i ragazzi. Ci siamo abbracciati forte, lei è scoppiata a piangere. Io le ho promesso che sarebbe per sempre stata orgogliosa di me e lei mi da detto non sarebbe cambiato nulla, che mi avrebbe continuato ad amare come sempre. Anzi forse di più.

Solo che nei suoi occhi leggevo preoccupazione. Preoccupazione che non avrei avuto le stesse opportunità di un ragazzo etero. In quel momento è come se i miei sogni si fossero dimezzati, tranciati perché stavo rinunciando al privilegio di costruirmi una famiglia. Quel giorno mia madre non se l’è sentita di dirmi che da grande sarei potuto diventare chi volevo. Perché io vivo in un bellissimo paese dove due uomini o due donne che si vogliono bene non possono sposarsi. Vivo in paese dove l’unico amore che merita di essere celebrato è quello tra uomo e donna. Allora quel giorno ho imparato a sognare ad occhi chiusi perché non riuscivo più a vedere la vita che volevo.

Ora qualcuno di voi si chiedere perché hanno chiamato questo tizio a calcare il palco del TEDxLungarnoMediceo e vi posso assicurare che anche io me lo sono chiesto tante volte… anche se sulla mia forma rarissima di artrite psoriasica potrei star qui ad intrattenervi per i prossimi quindici minuti con dettagli esilaranti. Ma le articolazioni usurate le lasciamo da parte.

Che cosa ho da raccontarvi?

In che cosa oggi posso essere d’ispirazione per capire insieme come costruire la società domani?

La riposta è questa, l’unica risposta possibile probabilmente è questa:

Il talento naturale nel prendermi cura dei miei sogni e fare di tutto per realizzarli.

A questo punto se me lo permettete mi presento un’altra volta, giuro che è l’ultima, tanto il mio nome lo conoscete già. Mi chiamo Carlo e sono esattamente nel posto dove avrei voluto essere. Dopo anni ad ascoltare le storie a lieto fine degli altri, finalmente oggi posso raccontarvi la mia. Ho trentacinque anni, sono sposato e sono padre di due gemelli!

Sapete, se io fossi nato a Sacramento in California, sarei stato semplicemente Carlo, sposato con quel gran manzo di mio marito e padre di due gemelli. Probabilmente l’unica cosa interessante della mia vita sarebbero state, appunto, le mie articolazioni usurate.

A nessuno sarebbe interessato in che modo io sono diventato genitore. Gli sarebbe bastato sapere che pago le tasse, che tifo Lakers, che guardo Oprah, e che mi prendo cura dei gemelli come fossero la cosa più importante della mia vita.

Invece vivo in un paese bellissimo, e nonostante paghi le tasse, tifi Inter e ammetto ogni tanto di guardare anche Maria De Filippi, vivo con una spilla conficcata nel petto, cucita con l’ossessione che qui da noi, se sei omosessuale non puoi essere genitore.

Il giorno in cui ho sposat Christian, a proposito Christian, alzati in piedi, fatti vedere!

Io ve lo avevo detto che era manzo, io ve lo avevo detto.

Il giorno in cui l’ho sposato, ho guardato mia madre e le ho detto: hai visto mamma, alla fine anche io, ho potuto urlare davanti ad amici e parenti il mio amore.

Certo ho dovuto aspettare, abbiamo dovuto aspettare il 2016 e con una forma ridotta di matrimonio. L’hanno chiamata unione civile. Come se l’amore tra due persone dello stesso sesso dovesse celebrarsi in silenzio e senza dare troppo nell’occhio, “civilmente”, che già di borchie e lustrini ce ne stanno troppi ai pride.

Ma da quel giorno ho ripreso a sognare ad occhi aperti.

Il giorno in cui i miei genitori hanno conosciuto i gemelli, ho guardato mio padre e gli ho detto: hai visto papà, alla fine anche tu sei diventato nonno.

E da quel momento sogno tutti i giorni anche perché di notte, con due gemelli di tre anni, vi lascio immaginare.

Vedete oggi sono qui in quanto attivista della comunità LGBTQIA+ ma sono qui soprattutto in quanto attivista dei diritti umani. Perché qui si parla di noi, si parla di voi, si parla della nostra libertà di scelta, si parla di persone. E per questo oggi vorrei concentrarmi più sul come piuttosto che sul cosa sono riuscito a costruire, sperando che la porticina che io ho aperto, nel 2050 diventi un grande portone accessibile a tutti, o meglio accessibile a chiunque scelga di varcarlo. Perché in fondo credo che l’unica variabile che ci rende davvero uguali è la libertà di scelta. E se tutti non possiamo sognare la stessa cosa, allora vorrà dire che quel diritto appartiene a pochi ma non a tutti, è esclusivamente un previlegio.

Il giorno in cui sono inciampicato rovinosamente sul mio orientamento sessuale me lo ricordo molto bene. Facciamo questo gioco: alzi la mano chi si è innamorato del proprio migliore amico o della propria amica.

Bene. Anche a me è successo.

Mi è successo ma non gliel’ho detto, e non solamente perché non ho avuto il coraggio di dirglielo ma semplicemente perché nessuno mi aveva detto che se io avessi sentito le farfalle allo stomaco quelle che svolazzano sull’intestino crasso che si appollaiano sul pancreas, nessuno mi aveva detto che se le avessi sentite per una persona del mio stesso sesso sarebbe stata una cosa normale. Nessuno mi aveva detto che non c’era niente di sbagliato.

Però i modelli che la società mi suggeriva erano sempre gli stessi: madre/padre, uomo/donna.

Immaginate di guardare la televisione che trasmette un canale sempre con lo stesso programma.

Quello c’era e quello dovevo diventare.

Quelli erano gli unici due binari percorribili. Le altre erano semplicemente deviazioni che avrei dovuto evitare, per non ritrovarmi in una strada dissestata, buia, sporca, ostile, peccaminosa, eccettera

Allora per un periodo della mia vita che cosa ho fatto? Mi sono seduto sui binari della normalità, perché così facevano tutti, vivendo esattamente come gli altri si aspettavano che facessi.

Non che stessi male. Ho avuto due relazioni importanti con due ragazze. E credevo veramente di amarle. Bastava semplicemente accontentarsi, mettere da parte i propri sogni e vivere secondo le aspettative degli altri.

Solo che ad un certo punto ho detto basta. Io in questa vita ci stavo stretto come se stessi indossando una camicia di forza.

Ed è in quel momento che ho capito che tutto il tempo impiegato a chiedere agli altri il permesso per essere felice, era tempo che stavo sprecando per fare in modo di esserlo.

E mi sono detto: sapete che c’è?

Questo sono io. E di sbagliato c’è solamente chi prova a dirci chi e come amare.

Di sbagliato c’è solamente chi prova a farci vivere una vita che non ci appartiene.

Di sbagliato c’è solamente tradire la nostra natura, per accontentare gli altri.

Ed è in quel momento che ho capito che essere me stesso avrebbe reso il mondo un posto migliore, ed è lì che è partita la mia ricerca della felicità.

Una ricerca che mi ha condotto nel posto in cui avrei voluto vivere.

Un posto che conoscevo molto bene, perché è stato talmente tanto bello essere figlio, che mi sarebbe piaciuto tornarci ma stavolta da padre.

Un posto che però, nel nostro Paese, prevede delle rigidissime barriere all’ingresso, soprattutto per chi come me, ha l’orientamento sessuale diverso.

È un posto che per raggiungerlo ho dovuto fare il giro del mondo e non è esattamente un eufemismo.

I miei figli, i nostri figli, sono nati tramite Gestazione Per Altri negli Stati Uniti. Una pratica che in paesi, come la California, come il Nevada o come il Canada, è regolamentata da oltre vent’anni, ed è una scelta libera, volontaria, consapevole.

Una scelta che coinvolge donne che devono già essere madri e che devono dimostrare di essere ben al di sopra di una certa soglia di povertà.

Una scelta che ha solamente l’obiettivo di, come dice la parola stessa, generare vita. Nel nostro caso due vite e che ci ha permesso di essere una famiglia allargata, che oltrepassa i confini fisici e ideologici di chi ci vede solo una scelta dettata dall’egoismo.

Quando rifletto sul 2050, non posso che pensare a che tipo di mondo, che tipo di società, vorrei lasciare ai gemelli ai nostri figli.

Io bel 2050 avrò sessantasei anni. Christian tu qualcosina di più. Cambieranno tante cose. Io, per esempio, avrò i capelli grigio topo, probabilmente indosserò un paio di occhiali da vista per riuscire e per continuare a vedere bene la vita che sono riuscito a costruirmi.

Però al di là della mia vecchiaia galoppante, sperando che la chioma sia folta com’è in questo momento, sono altri i cambiamenti che vorrei che i miei figli, che vorrei che i nostri figli, riusciranno a vivere.

Nel 2050 mi piacerebbe che non esistessero più amori giusti e amori sbagliati. Mi piacerebbe che non ci fosse più distinzione tra amori da celebrare e amori da tenere nascosti. Vorrei che nel 2050 nessuno più si permettesse di dirci: “A casa vostra fate quello che volete”. No signori! Non a casa nostra. Io vorrei che chiunque si sentisse sicuro al cinema, per strada, in un vicolo di un paesino dell’entroterra siciliano, senza sentirsi gli occhi puntanti addosso della gente che si attaccano come mucillagine, restituendoti quella sensazione di sporco e di pericoloso.

Nel 2050 vorrei che la discussione sulla legge contro l’omolesbobitransfobia fosse solo un lontanissimo, lontanissimo ricordo e che riusciremo a festeggiare il trentennale di un importantissimo atto di cittadinanza democratica, perché di questo si tratta.

Nel 2050 che vorrei mi piacerebbe che non ci fosse più distinzione più famiglie di serie A e famiglie di serie B. Famiglie da aiutare e famiglie che non meritano nemmeno di essere riconosciute. Nel 2050 mi piacerebbe che qualsiasi tipologia famiglia, a prescindere dalla propria composizione, venisse tutelata, protetta e rispettata.

E vorrei che non fosse più necessario adottare il figlio del partner e che tutti i bambini nati all’estero tramite Gestazione Per Altri o fecondazione assistita vengano riconosciuti immediatamente in questo paese con due genitori.

In fondo l’unica cosa che vorrei è che la sostanza valesse molto più della forma.

Nel 2050 che vorrei mi piacerebbe che non esistessero più attività, sport, colori, mansioni suddivise in maschi e femmine. Vorrei che mio figlio Sebastian, che adora il rosa, non rischi mai di essere preso in giro semplicemente per aver scelto un colore da femmina.

Nel 2050 vorrei che tutti i bambini avessero la possibilità di dipingere il loro mondo, la loro vita, con il colore che vorranno.

Vorrei che tutti i padri che si prendono cura dei propri figli, non vengano mai più chiamati mammi. Basta, non ce la facciamo più, basta.

Nel 2050 vorrei che esistesse un unico congedo parentale, senza dividerlo per facoltativo, obbligatorio, madre o padre, ma uno. E che chiunque possa scegliere all’interno del proprio nucleo familiare come spartirsi le mansioni dentro e fuori le mura domestiche.

Nel 2050 vorrei che chiunque possa sognare di essere chi vuole, a prescindere da ciò che ha dentro le mutande o da chi ha scelto di amare.

Nel 2050 vorrei che le donne fossero tutte libere. Libere di portare avanti una gravidanza per altri, o libere di interromperla. Vorrei che nessuna donna venga più considerata egoista semplicemente perché ha scelto di non avere dei figli. E vorrei che a nessuna donna venga più chiesto se vuole avere figli ad un colloquio di lavoro. Basta, davvero, basta.

Vorrei che la libertà di scelta fosse l’unica variabile che ci rende tutti uguali perché diversi lo siamo già ma liberi, non ancora.

Nel 2050 vorrei che il mio talento nel prendermi cura dei miei sogni, diventi un’opportunità per chiunque lo voglia, per chiunque lo desideri.

E vorrei semplicemente che le adozioni vengano concesse ai single e alle coppie formate da persone dello stesso sesso.

E infine l’ultimo augurio che mi faccio, che vi faccio, che ci dobbiamo fare, è che nel 2050 prima del sesso, prima dell’orientamento sessuale prima della  nostra identità di genere, verremmo considerati per quello che davvero conta.

Essere umani!

Grazie